5-6 giugno 2015 (Foto & Ricordi)
 

 

 

RICORDI

 

 

FOTOGRAFIE

 

Ad Ancona non c'era la neve (Luca de Benedictis)

 
The Workshop
The Party
The Roundtable

 

Spedii la domanda di dottorato che a Ginevra nevicava. Guardavo le montagne riflettersi nel lago e mi chiedevo dove fossero le Marche. Avevo spedito le domande tutte insieme: Roma, Bologna, Firenze, Torino, anche Pavia, ricordo. Nel mazzo c'era Ancona. Non ricordo invece perché l'avessi inserita tra le potenziali mete dei miei successivi due anni. Di Ancona non sapevo nulla. Di certo non c'era la neve.

 

Il treno che percorreva la linea adriatica arrivò ad affacciarsi sulle spiagge di Falconara Marittima che era già l'ora che volge al disio, eccetera eccetera. Il viaggio era stato tranquillo. Viaggiatori solitari immersi nelle proprie letture. Era l'epoca dei walkman; gli smartphone erano ancora da venire. Avevo lasciato il Graduate Institute of International Studies con qualche rimpianto. Non ero stato uno studente eccellente. Sempre attento agli aspetti critici, ero ancora poco incline ad omologarmi alla teoria del commercio internazionale che vedeva ancora nel modello di Heckscher-Ohlin, nella versione di Jones (JPE, 1965), il paradigma in cui porre le proprie domande di ricerca. Un amico mi aveva regalato il secondo volume di Helpman e Krugman (1989) che era uscito da poco (!). Lo lessi, avanti e indietro. Ne lesionai permanentemente la rilegatura. Tutta quella concorrenza imperfetta mi entusiasmava. C'era ancora così tanta geometria che mi sembra un'epoca fa.

La tesi che avevo appena scritto era sul protezionismo e sui modelli di lobbying; con l'aggiunta di un impianto oligopolistico sarebbe diventata poi anche la base per la mia tesi di dottorato. Chiesi poi a Giuliano Conti di seguirmi nei miei tentativi di dar ordine alle mie letture e alle mie idee. Lo fece con dedizione; spronandomi a seguire i miei interessi; con un'attenzione agli aspetti essenziali delle relazioni umane che mi ha sempre intenerito.

Sempre parzialmente soddisfatto della mia ricerca, pensavo a volte che quell'insistere sui valori fondamentali della vita, l'amicizia, la serenità, l'equilibrio, il rispetto per le idee degli altri, la modestia, nascondesse un sostanziale disinteresse per l'argomento della mia tesi. Immaginai che lo spronarmi ad andare a Southampton, a impostare il lavoro con Tony Venables, fosse un modo per sbolognarmi a qualchedun altro. Mi sbagliavo. Giuliano era una persona di una semplicità squisita, ma voleva anche il meglio per i propri studenti. Ne era orgoglioso, anche con un pizzico di vanità. Quando gli dissi che il suo nome compariva nell'albero genealogico degli economisti internazionali curato da Alan Deardorff fece la ruota per venti minuti.

 

Ma torniamo al treno per Ancona. Avevo lasciato la Svizzera, ma ero ancora restio ad abbandonare una carriera internazionale. Mi si ripeteva che un titolo all'estero andava certo bene ma, eccetera eccetera. Era importante mantenere i contatti con l'Italia. Il dottorato era un buon modo per mantenerli, questi contatti. Col senno di poi mi chiedo di che contatti si parlasse. Con l'ambiente universitario di origine? Con le stesse aule in cui si era studiato? Con i gruppi di ricerca in Italia? Non so. Cosa questo mi potesse offrire in termini di prospettive di ... lavoro (!?!) mi era sostanzialmente sconosciuto. Avevo contatti con poche persone. Piercarlo Padoan, con cui mi ero laureato a La Sapienza di Roma, mi coinvolgeva in molte iniziative di ricerca. Mi piacevano le cose che faceva. Scriveva bene e leggevo i suoi libri con piacere. Gli altri Prof (come si chiamano ora) che avevano attratto la mia attenzione erano per un verso o per l'altro venuti a mancare: Caffè era scomparso; Vicarelli era morto in un incidente stradale; Tarantelli ucciso dalle Brigate Rosse. Mantenere i contatti con l'Italia? Mi chiedevo che senso avesse. Quando avevo chiesto a Padoan un parere su Ancona mi aveva detto: <>. Non molto di più. Il fatto che Stefano Manzocchi, che si era laureato anche lui con Padoan e con cui avevo diviso un anno e mezzo di Ginevra, avesse fatto la mia stessa scelta mi rassicurava, parzialmente.

 

Il primo test scritto era il giorno dopo. Con Stefano avevamo prenotato una stanza in una pensione dalle parti di Viale della Vittoria. Era più un affittacamere che altro. La rete del mio letto mi fu molto di aiuto in seguito quando cercai di visualizzare il concetto di "punto di sella''. Eravamo stanchi ed era bene riposare in vista dei due giorni successivi. Verso le due fui svegliato da un battere forsennato e da grida allucinate. Sgranai gli occhi. I due della stanza affianco avevano deciso di manifestare acusticamente il loro eterno amore. Stefano ne era alquanto contrariato e in piedi su letto in maglietta e mutande inveiva, battendo i pugni sulla parete. L'immagine di questo enorme Manzocchi maledicente mi rimase impressa nella retina tutto il giorno successivo. E anche in quelli che seguirono, evidentemente.

 

Il giorno appresso, gli aspiranti dottorandi seduti ordinati nella stanzetta del terzo piano di Via Pizzecolli non mi fecero una grande impressione. Io scodinzolavo come un cucciolo. Venivo dall'estero ed ero ansioso di scambiare idee con coloro che avevano fatto o stavano facendo esperienze come le mie. Eravamo lì tutti per la stessa ragione: volevamo mantenere i contatti con l'Italia. Inoltre, eravamo tutti sul punto di valicare la soglia degli studi post-grado italiani, unirci alla schiera degli accademici. Le sconfinate praterie della ricerca ci aspettavano e, invece, tutta quest'ansia di appartenenza non c'era. Tutti, mi sembrò allora, stavano grigiamente seduti come candidati ad un concorso ministeriale da 8 posti su 300 mila candidati. Non uno sguardo appassionato, non un cenno di condivisione. La tensione era palpabile. Non ricordo la faccia di nessuno in quel giorno.

Fu estratto un tema sulle aspettative razionali e la politica economica. Vi rendete conto? Come se a casa dell'agnello vi ci si facesse entrare solo dopo aver valutato le vostre capacità di digerire nonna e cappuccetto rosso senza problemi. Non credo, poi, di aver incontrato nessuno ad Ancona che prendesse le aspettative razionali seriamente. Neanche Renato Balducci. Insomma, risposi con perizia, condendo il componimento con un pizzico di visione critica a là Hashem Pesaran. Infondo, dovevo farmi conoscere come uno attento agli aspetti critici.

Dopo l'esame, in silenzio, ognuno tornò alle proprie esistenze.

 

Il giorno dopo ci chiesero di commentare una tabella, credo di qualche relazione della Banca d'Italia. Il modo con cui il tutto veniva accolto era come se avessimo dovuto cimentarci in un saggio di esegesi biblica. Io non vedevo un numero dai tempi del capitolo sul "Quadro macroeconomico" della mia tesi di laurea sul Cile. Anche nel corso di econometria di Ginevra si trattava di dimostrare quanto BLUE fosse un beta. Dati pochi, solo se indispensabile, ed era comunque considerato di cattivo gusto discuterne in pubblico.

 

Come c'era da aspettarsi non passai l'esame. Finii undicesimo, credo. Ma il fato, che guida le sorti degli uomini, decise di far fare un altro giro di ruota. Alcuni candidati rinunciarono e io finii tra i papabili. Dottorando in Economia, V° ciclo, Università degli Studi di Ancona, che allora non era neppure Politecnica e che estendeva al territorio provinciale le sue ambizioni di dominio sul pensiero scientifico. Oltre i confini della provincia vivevano mostri, selvaggi ostili e leones di varia foggia e misura.

 

Visto che mi era stata concessa una proroga per concludere i miei impegni al Graduate Institute, tornai ad Ancona che i corsi erano già cominciati. Volevo evitare una seconda esperienza di Pensione anconetana. Alcuni compagni di dottorato cercavano un appartamento da affittare e così conobbi loro e la mia nuova casa pressoché contemporaneamente. Era sulla strada che arriva a Torrette dalla superstrada, all'altezza del semaforo in cui i Tir pluri-rimorchiati che arrivavano alla costa, secondo una modalità organizzativa (allora) giapponese, cioè 24 ore su 24, frenavano a singhiozzo, come comanda l'etica del vero camionista. I vetri della casa vibravano continuamente, in uno stato di allerta sismica che non tranquillizzava. Anche perché la frana sulla Flaminia ci era di continuo monito. La casa aveva due stanze da letto. Stefano decise che noi avremmo dormito insieme nella stanza più lontana dalla strada. Il ricordo della sveglia notturna nella Pensione dell'amore eterno mi spinse a chiedere un'estrazione a sorte. Il fato fu inflessibile. Manzocchi ed io in una stanza, gli altri due in quella che rimaneva. Gli altri due erano Stefano Staffolani e Claudio Casadio. Il primo è oramai noto universalmente per le sue doti umane, la pazienza granitica e l'amore mai celato per le tabelle. Erano per me valori incomprensibili, notoriamente anti-moderni. Al contrario di Stefano M., che era di Roma ed era alto e biondo, Stefano S. (fatemeli chiamare cosi per comodità) era piccolo e bruno, e soprattutto di Tolentino. Un posto dove non arrivava neanche l'autostrada! Il motto sul suo blasone era ed è ancora, credo, "Meglio una salsiccia che una spigola". Era un uomo che non capivo. Di quelli che sono talmente maschi che anche dopo essersi appena rasati devono farsi nuovamente la barba. E poi aveva fatto ragioneria. Io quelli di ragioneria li vedevo arrivare di corsa armati di uova marce e fionde all'uscita dal liceo. Rapivano le nostre donne e bruciavano le nostre case. Ma Stefano S. dormiva con la mano poggiata sulla finestra che dava sulla strada e questo impediva che il vetro vibrasse, troppo. Per quello cominciai a provare per lui un grande rispetto, che col tempo è diventato affetto e amore puro. Stefano S. mi ha ospitato in varie sue case, io l'ho ospitato in alcune delle mie e avrei voluto ospitarlo in tutte. Mi ha permesso di andare in Mozambico ad insegnare e quindi è stato involontario corresponsabile della mia decisione di accettarmi come genitore. Ci siamo incontrati molte volte e continuiamo a farlo. Ci sentiamo di solito il martedì, ogni quindici giorni, alle 10:30. Lui che era sempre puntuale ora è sempre in ritardo. Questo mi piace molt-i-s-s-i-m-o!

 

Claudio Casadio invece è morto. E questo non mi piace affatto. Aveva un tumore al cervello e in pochi mesi se ne è andato. Claudio era veramente bello. Di quelle bellezze inquiete che non ti lasciano scampo. Era "un evolutivo", tutto per lui era dinamica; il concetto di equilibrio: una favoletta per bambini. Veniva da Fabriano e continuava a girare. Dopo il dottorato, da Parigi dove era all'OCSE decise di venire a Roma. Voleva fare delle idee economiche una opportunità imprenditoriale, mise su riviste online, rendeva divulgative le idee dei paper più interessanti. Se fosse stato in un altro Paese sarebbe stato un modello di successo imprenditoriale. Gli passai la mia casa per un anno, condividemmo uno studio nel centro di Roma, pranzammo innumerevoli volte insieme. Poi si ammalò e morì. Feci a tempo a stargli vicino qualche ora. Gli raccontavo cosa facevo, che notizie avevo dei nostri amici. Lui ascoltava. Non parlava, bisognava imboccarlo. L'ultima volta, nel salutarlo mi chinai a baciarlo. Aveva la testa rasata, segnata da una grande cicatrice. Non era più tanto bello, ma volevo baciarlo lo stesso. E lui mi sorprese, quando lo salutai con un inopportuno "Stai bene, Claudio". Mi colpì con un "Grazie" veloce, a mezza bocca. Una sassata.

 

Andando a Macerata, dove ora insegno, passo sempre da Fabriano. Penso sempre a Claudio. Continuo tra me e me il dialogo interiore che ho con lui. Ne porto in giro un pezzetto nei miei viaggi intorno al mondo. So che a lui piacerebbe esserci. Anche qui in Norvegia, dove nevica a Giugno, da dove sto scrivendo ora.

 

La casa di Torrette si popolava a volte di tutti noi studenti e docenti del dottorato. Comparivano i Massimo Tamberi, gli Alessandro Sterlacchini, Carlotta, Andrea, Manuela venivano spesso a rifugiarsi da noi. Si suonava la chitarra e si cantava, come nelle migliori tradizioni. Carlotta faceva avanti e indietro con Bologna e anche gli altri pendolavano verso vite che non avevano abbandonato del tutto. Si studiava, ma non proprio da ammazzarsi. Spesso dalle aule, ci si spostava alle trattorie del porto o alla spiaggia di Mezzavalle. Eravamo giovani e avevamo il privilegio di dedicare allo studio una buona parte del nostro tempo. Ognuno poteva scegliere secondo le proprie preferenze. La biblioteca era già allora grandiosa, il personale del Dipartimento ... di una efficienza sorprendente, i docenti ... disponibili ma non asfissianti. L'ibridazione della "Scuola di Ancona'', che cominciava in quegli anni, offriva una pluralità di esperienze individuali rare da concepire in un solo luogo: l'eredità storica di Fuà, impersonata dai Marco Crivellini, Paolo Pettenati, Paolo Ercolani, fino all'esempio più fumoso (nel vero senso del termine!) di Peppe Canullo, la macro "quasi standard" di Giuliano e di Piero Alessandrini, l'eterodossia di Toni Calafati (a cui devo, oltre che molti giorni di lunghe discussioni, l'affezione per le colline spoglie dell'entroterra marchigiano, e anche la convinzione che il mio modo di approcciare i temi della mia ricerca sia quello dello "story teller"), la banda del modellaccio, le incursioni agricole di Franco Sotte e quelle industriali "sul campo" di Valeriano Balloni, le serie storiche di Carlo Giannini e la competenza informatica, e non solo, di un curioso tecnico di laboratorio. Insomma, c'era di tutto, dall'analisi regionale all' istituzionalismo, dal rigore formale a ... le tabelle. Molte di quelle cose sono parte di me, molte di quelle persone, anche di quelle che non ho nominato, per decenza o senso di rispetto, sono parte di me. Alcuni sono degli amici di cui non mi libererò mai.

 

Poi tutto esplose come il nucleo di un atomo. Noi del V° ciclo ci disperdemmo nell'universo. Lasciammo il posto a quelli che venivano dopo. Io "quelli di dopo" li odiavo, avevano, giustamente, usurpato il mio posto. Uno di loro prese così seriamente il suo compito tanto da innamorarsi di una sua compagna di dottorato, mia "fidanzata" di allora. Non fu più la mia.

 

La fine del dottorato coincise quindi, per me, con un periodo di amarezze. Un legame di lunga data era stato reciso. Il periodo della casa di Torrette era lontano. La tesi era stampata. La discussi di fronte ad una Commissione Nazionale, forse una delle ultime volte in cui questo accadeva. Ebbi i complimenti della Commissione. Poi ci fu un concorso da ricercatore. Ad Ancona. Partecipai. Giuliano Conti mi chiamò: non avevo vinto, ero arrivato secondo. Primo: Stefano M. Il fato decise anche questa volta. Era per me il momento di un cambiamento radicale, definitivo, assoluto.

 

Andai a Macerata